Luciano Benetton all’età di 89 anni, si ritira definitivamente dal gruppo da lui fondato sessant’anni fa, e porta con se un buco di 100 milioni di euro o 230? Ma punta il dito contro l’attuale dirigenza, accusandola di essere la principale causa di questa perdita milionaria.
Le sue “giustificazioni”
Mi sono fidato e ho sbagliato. Sono stato tradito nel vero senso della parola. Qualche mese fa ho capito che c’era qualche cosa che non andava. Che la fotografia del gruppo che ci ripetevano nei consigli di amministrazione i vertici manageriali non era reale.
La storia.
L’azienda Benetton è stata fondata nel 1965 a Ponzano Veneto, in provincia di Treviso, dai fratelli Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton. Ed è sempre nel 1965 che viene viene inaugurato il primo negozio a Belluno. Quattro anni più tardi apre il primo negozio all’estero, a Parigi. Da qui l’espansione internazionale dell’azienda, proprietaria anche del marchio “Jean’s West” e, successivamente, si Sisley.
L’insegna Benetton compare sempre più spesso nelle grandi città di molti Paesi, dagli Usa al Giappone, e anche sulla carrozzeria di auto di Formula1, dove negli anni 80 Benetton corre con una propria squadra. Alla fine degli anni ottanta il gruppo si quota alle borse di Milano, Francoforte e New York e, nel 1987, nasce la Fondazione Benetton Studi Ricerche e viene istituito il Premio Internazionale Carlo Scarpa.
Nel 2003 la famiglia Benetton annuncia che si ritirerà progressivamente dalla gestione diretta dell’azienda lasciando spazio ai manager esterni alla famiglia.
Gli scandali
United Crimes of Benetton cosi vengono definiti gli affari della famiglia Benetton.
Dal 1991 ha un contenzioso aperto con i popoli Mapuche; un contenzioso che ha causato la rimozione violenta di interi villaggi, la militarizzazione delle aree di proprietà della holding, nonché la morte e sparizione di diversi attivisti. I 900.000 ettari di proprietà Benetton, al confine tra Cile e Argentina, sono il frutto di un’operazione di espropriazione sistemica e neocoloniale dei territori indigeni in America Latina. Un’operazione non dissimile da quanto accaduto in Turchia, dove Benetton è stata denunciata per sfruttamento del lavoro minorile; o in Bangladesh, dove 1132 lavoratori/trici hanno perso la vita per produrre tessuti per Benetton lavorando in condizioni di semi schiavitù. La speculazione e lo sfruttamento che hanno contraddistinto queste politiche aziendali sono contigue a quanto accaduto persino in Italia, dove l’azienda, attraverso le concessioni autostradali al gruppo Atlantia di cui è azionista maggioritaria, ha ignorato i regolari lavori di monitoraggio e manutenzione che hanno portato alla tragedia del Ponte Morandi. Non si sono fatti mancare nulla…
Non ho mai nutrito simpatia per questa dinastia, che come altre ha mostrato nel tempo, di rincorrere il profitto senza alcuna etica morale. Le perdite economiche del gruppo sono irrilevanti al cospetto del patrimonio accumulato negli anni dalla famiglia Benetton. Quello che resta è la memoria delle vittime del ponte Morandi, causate dalla loro perfida gestione.